IRCamminare insieme


Vai ai contenuti

Menu principale:


Racconti Natale

Storie

T-rex e l’alberosauro natalizio
“Sapete che tutti parlano di noi?” disse Pipposauro ai suoi amici intenti a schiacciare un pisolino dopo il lauto pasto di mezzogiorno. “Si, si… c’è scritto qui sulla “Gazzetta dei Sauri”, a pagina 3: ci descrivono come esseri giganteschi… Ma allora come sono alti questi uomini… pardon… bassi?”.
“Faresti meglio a tacere” mugugnò, ancora masticando, il vecchio T-rex “sai quanto è lenta la mia digestione e poi non ho voglia di scomodarmi per conficcarti i 18 centimetri dei miei denti nella tua pellaccia, mi sono spiegato?”.
T-rex era noto per il suo caratteraccio ma i suoi amici, che lo avevano segretamente soprannominato “Tetrosauro”, gli volevano un gran bene e lo rispettavano, soprattutto da quando era diventato famoso grazie ai film che lo vedevano come protagonista.
I suoi figli, i piccoli Tenerisaurirex, si facevano sempre portare qua e là a spasso sulla sua lunga coda e si divertivano tantissimo.
“Papà, il Natale si sta avvicinando: ci avevi promesso l’albero più grande di tutta la foresta, ricordi?” gli gridarono nelle orecchie i piccoli sauri. “Uhm… andate a cercarne uno, io vi raggiungo più tardi. Chiedete a Fiutosauro di accompagnarvi, in poco tempo saprà trovare quello che desiderate… Ronf… Ronf… Zzzz… Zzzz…”
Fiutosauro era il più bel esemplare di guida turistica di tutta la valle di Dinolandia: appena i piccoli sauri lo raggiunsero nel suo “Ufficio Informazioni”, egli prima consultò un grosso libro poi li caricò sulla sua possente coda e… via di corsa per la foresta alla ricerca dell’albero per Natale.
Giunti in una radura soleggiata, scoprirono il più grande albero mai visto, davvero gigantesco. A Fiutosauro venne subito la voglia di mangiarsi un po’ di foglie ma si trattenne: “Ehm.. Ehm.. pensate possa andare bene? Per gli addobbi però dovrete rivolgervi ad Archimedesauro, io non mi intendo di luci, palline e tutta questa mercanzia”.
“Wow wow! E’ superfantastico! Sarà l’albero più bello di tutta Dinolandia! Presto, andiamo dal geniosauro, ha sempre un sacco di idee in testa, ci sarà utile” decisero euforici i Tenerisaurirex.
Il laboratorio di Archimedesauro era pieno zeppo di invenzioni, di fili sparsi qua e là, di appunti e formule matematiche degne di un vero scienziato. “Uhm… un albero di Natale? E che invenzione è questa?” rispose pensieroso alla richiesta dei piccoli. “Dovrò costruire un circuito elettrico molto potente per fare in modo che l’albero illumini tutta la valle.
Uhm… mumble… mumble… mi sembra un’ottima idea, molto originale. Consultando i miei annualisauri, non ho notizia di un albero natalizio nella valle…”.
Si misero subito al lavoro: gigantesche bacche rosse, liane intrecciate, candide ninfee, fiori dai mille colori divennero come d’incanto il vestito natalizio per quell’albero così alto. Per tutto il giorno un gran via vai di sauri fece tremare la terra: chi portava una cosa, chi un’altra, chi consigliava, chi bisticciava… Insomma, tutti al lavoro tranne il vecchio T-rex, che ancora sonnecchiava all’ombra.
Appena la sera calò sulla valle, Archimedesauro disse “Ora tutto è pronto: un clik al generatore di corrente e vedranno il nostro super albero persino al Polo Nord… Uhm… Polo Nord?… non so cosa sia, ma l’ho letto da qualche parte… mumble… mumble…”, pensò grattandosi la testa.
Dal suo laboratorio azionò l’interruttore e… “Ohhhhhhhhh…. Che meraviglia!” esclamarono tutti alla vista di così tanto splendore. Era senza dubbio il prototipo di alberosauro natalizio più bello della storia. “Eh eh… Speriamo nel Premio Nobelsauro per il prossimo anno” disse compiaciuto il genio.
“Groooaaarrrrrrrr…. Ma che succede? Mi sembrava di aver dormito tanto ma vedo che è ancora giorno” disse T-rex svegliandosi disturbato da così tanta luce. “Papà… guarda: il nostro albero!” risposero i piccoli strattonandogli la coda.
Con fatica il grande T-rex si alzò, si stiracchiò e rimase senza parole di fronte a tanta bellezza: con due zampate fu vicino all’albero, lo osservò attentamente e disse “Sono commosso, amici: ora siamo pronti a festeggiare anche noi il Natalesauro” e così dicendo scacciò una lacrima senza farsi troppo notare. Peccato che i libri di storia non parlino di questo avvenimento ma, chissà… magari dopo aver letto questo racconto qualcuno ci penserà…
di Greta Blu



Il miracolo di Natale
Nella valle incantata, in una fattoria felice, viveva un bue di nome Barny. Grande e grosso, con due occhi buoni e sinceri, lavorava tutto il giorno spingendo l’aratro. Questo bue era l’amico di tutta la fattoria: i contadini con i quali lavorava gli volevano un gran bene e i bambini non si stancavano mai di giocare con lui. Nonostante fosse così grande e grosso non faceva paura a nessuno, perché era l’animale più buono che potesse esserci. Alla sera quando tramontava il sole e si stendevano le prime ombre, tutti gli animali si radunavano intorno a lui per sentirlo narrare le sue tante storie. Appena finiva di raccontarne una, subito gli chiedevano: “Dai, dai, raccontane un’altra”; lui continuava fino al crepuscolo e allo spuntare delle prime stelle, poi diceva: “Ora andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro”. Allora tutti gli animali andavano a dormire e nella fattoria scendeva un grande silenzio.
Il bue Barny era simpatico a tutti: alle pecore e alle oche, alle anatre e agli agnellini, alle mucche e ai maialini, alle galline e al vecchio cane da guardia, al padrone della fattoria e ai suoi bambini, ma il suo migliore amico era il piccolo asinello Tim con cui condivideva la stalla, la paglia e il duro lavoro. Quando arrivava la notte e si coricavano vicini, si guardavano a lungo senza dirsi nulla e poi si addormentavano, stanchi ma felici.
Il bue aveva un piccolo segreto nel cuore che conosceva solo l’asinello: gli piaceva danzare. Un giorno l’asinello gli disse: “Perché non ci provi, tanto non ci vede nessuno: ti prometto che questo segreto rimarrà in questa stalla”. Tra veri amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare e da quel giorno il bue incominciò ad improvvisare dei semplici balletti. L’asinello si divertiva tantissimo. Poi toccò a Tim realizzare il suo desiderio: a lui piaceva moltissimo cantare. E siccome tra amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare, l’asinello, tutte le domeniche, inventava delle allegre canzoncine che mai nessuno aveva ascoltato all’infuori dell’amico bue.
Quei momenti, quegli scherzi, quelle risate erano tutta la vita e il divertimento dei due amici, che sapevano rendere grazie a Dio per ogni nuovo giorno loro donato. Appena sorgeva l’alba i due amici iniziavano il loro lavoro: il bue spingeva l’aratro e l’asinello trasportava la legna. Fino a sera non si vedevano più, ma non c’era istante della giornata in cui non sentivano l’uno la presenza e il sostegno dell’altro.
Tim era tutto per il bue Barny: fin dal giorno del suo arrivo nella fattoria gli era sempre stato accanto con il suo affetto e con la sua amicizia. Gli aveva insegnato le prime cose e si era preso cura di lui come un fratello, gli aveva fatto conoscere tutti gli animali della fattoria e l’aveva incoraggiato nei momenti di fatica. Anche Barny, sin dall’inizio, aveva ricambiato l’affetto per l’asino Tim e con il passare degli anni erano divenuti sempre più uniti, quasi una cosa sola. Quante difficoltà, quante sofferenze, ma il calore della loro amicizia aveva reso tutto più leggero, più bello.
Una sera, mentre tutti gli animali erano riuniti intorno al bue per ascoltare le sue storie, l’anatra chiese al bue: “Perché non ci racconti la tua storia, la storia della tua famiglia?”. Il bue per un attimo esitò, ma poi iniziò il suo racconto.
“In verità non ho molto da dire”, disse il bue, inizialmente un po’ imbarazzato dall’argomento. “Nella fattoria dove sono nato eravamo tanti vitellini: gli altri sono stati scelti per diventare dei tori e io invece per essere un bue e fare lavori pesanti. Poiché nella mia fattoria non serviva un trasportatore di aratro sono stato venduto e sono finito qui. Io sono molto contento, sapete, non mi lamento, ma ringrazio ogni giorno il buon Dio di essere utile per il duro lavoro della terra e di alleviare il peso dei contadini. Ma i miei fratelli, ahimé, si vergognano di avere un fratello bue, loro, così famosi in tutto il mondo: partecipano alle più importanti corride, gareggiano con i toreri più famosi, figurano su tutti i quotidiani e per questo mi disprezzano. Ma io non li invidio affatto, io non vorrei essere come loro: non fanno altro che fomentare la violenza e l’odio delle persone che assistono alle loro gare, nelle quali, pensate un po’, anche morire fa parte dello spettacolo”.
Il bue concluse così il suo racconto. Gli animali erano ammutoliti e nessuno osava più domandare nulla. L’asinello prese la parola rompendo il grande silenzio che aveva seguito il racconto del bue e disse: “Anch’io ho dei cugini molto famosi: sono cavalli da corsa. Partecipano alle gare e la gente scommette fior di quattrini sulle loro vittorie. Si vergognano di avere un lontano parente asino e si vantano di avere avuto antenati che hanno portato sulla loro groppa i più coraggiosi cavalieri partecipando alle più cruenti guerre. Sì, io sono un asino da soma e perciò disprezzato, ma non ho mai fatto guerra a nessuno”. “Bravo! Giusto!”, incominciarono a commentare gli animali, infervorati dal racconto dell’asinello.
Ormai era notte inoltrata quando gli animali della fattoria sciolsero la seduta. Incominciava a far freddo poiché l’autunno stava per fini e l’inverno era alle porte.
Il giorno successivo iniziò con un gran trambusto nella fattoria. Alle prime luci dell’alba era infatti giunto nella valle incantata un gran numero di persone. C’erano il parroco del paese, le autorità e personalità molto importanti. “Chissà chi cercano”, iniziarono a chiedersi curiosi gli animali.
Ben presto tutti iniziarono a fare castelli in aria. “Sicuramente cercano me – disse la mucca con presunzione – avranno bisogno del mio latte”. “No! – ribatté l’anatra – è me che cercano: avranno bisogno della mia carne pregiata per un pranzo succulento”. “No! – interruppe il maiale – il Natale si avvicina e certamente staranno cercando me per il cenone con il gustoso cotechino”. “Siete tutti in errore – dissero le galline – certamente è delle nostre uova che avranno bisogno”.
Barny e Tim ascoltarono un po’ divertiti le dispute dei loro amici, poi si avviarono ad iniziare il loro lavoro, alquanto indifferenti alla questione: di sicuro non era loro due che cercavano. Mentre camminavano, all’improvviso si sentirono chiamare. “Barny, Tim venite qui – gridò il padrone della fattoria – vi stanno cercando”. I due amici non credevano alle loro orecchie. Tim avanzò un po’ timoroso e Barny lo seguì, restando leggermente indietro. Quando giunsero davanti a tutta quella folla di persone, l’enigma fu presto risolto. “Stiamo preparando per la prima volta un presepe vivente nel nostro paese”, disse il parroco sorridendo ai due buffi amici. “E’ un evento importante – continuò il sindaco – verrà la gente anche dai paesi vicini per poter rivivere dal vero la nascita del nostro Salvatore”. Barny e Tim guardavano i due interlocutori un po’ stupiti: cosa c’entravano loro in tutto questo discorso? “Voi saprete che il Bimbo divino fu scaldato nella gelida notte da un bue e un asinello – disse il parroco, concludendo il discorso – abbiamo bisogno di voi per preparare la grotta di Betlemme. Accettate il nostro invito?”. “Noi?” disse Tim, talmente stupito da non riuscire quasi a reggersi in piedi, “Accettiamo con gioia immensa – disse Barny – è un dono senza misura poter scaldare Gesù Bambino”.
Così nella fattoria iniziarono i preparativi per il grande evento. Tutti gli animali si sentivano onorati della parte assegnata a Tim e Barny e per questo venne loro l’idea di formare una piccola banda musicale per accompagnare il bue e l’asinello in paese la notte di Natale. Le oche suonavano la tromba, le galline i tamburi, i maiali la grancassa, le pecore i piatti, le mucche il trombone e il grosso cane da guardia era nientepopodimeno che il direttore d’orchestra. Intanto anche i bambini iniziarono ad ornare la fattoria con gli addobbi natalizi e tutto si colorò di attesa e di festa, Non c’era sera in cui, dopo il lavoro, gli animali non si riunissero per suonare i brani natalizi, preparati ed eseguiti dalla loro banda, mentre il bue e l’asinello provavano la loro parte nell’immaginaria grotta di Betlemme.
Passarono i giorni e presto giunse il momento tanto atteso: la vigilia di Natale. Gli animali non stavano più nella pelle dalla gioia. Poche ore prima della mezzanotte tutti gli amici si predisposero per scendere in paese suonando. Al cenno del cane da guardia la banda attaccò: prima le oche intonarono con le trombette le dolci melodie, accompagnate dai tromboni; si unirono ad essi i piatti e i tamburi che intervallavano la musica con dei bei ritmi. Ultimi seguivano la banda Tim e Barny, gli ospiti d’onore. E così, passo dopo passo, la processione arrivò in paese. Gli abitanti, usciti dalle case per attendere la nascita di Gesù, non credevano ai loro occhi: mai si era visto uno spettacolo così bello. Finito di suonare, gli animali fecero venire avanti Tim e Barny che presero posto nella grotta.
Eccoli dunque pronti per il fatidico momento. Allo scoccare della mezzanotte, iniziarono a suonare le campane: Gesù era nato. Mentre tutti cantavano “Gloria a Dio su nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà”, il sacerdote pose il bimbo di gesso nella grotta e i due amici commossi si chinarono per scaldarlo con il loro fiato, come era stato loro detto. Ma all’improvviso, il piccolo bimbo di gesso si animò, aprì gli occhi e guardando il bue e l’asinello disse: “Non è il calore del vostro fiato a scaldarmi in questa gelida notte, ma l’amore che regna tra voi, l’amore della vostra amicizia. Tutte le volte che continuerete a volervi bene, così come avete sempre fatto, io sarò tra voi, come in questa notte”.
Questione di pochi attimi e il bimbo ritornò immobile, di gesso. La funzione finì e Barny e Tim ritornarono nella loro fattoria.
Era stato un sogno, uno scherzo della loro fantasia, o davvero un miracolo di Gesù Bambino? E chi lo sa! I due amici non raccontarono mai a nessuno l’episodio, che tennero conservato nel loro cuore fino alla morte. Ma nei loro occhi, da quella notte, ci fu una luce nuova che non passò inosservata agli amici della fattoria: la certezza che quel loro piccolo amore e quella loro semplice amicizia, era qualcosa di grande agli occhi di Dio.
Suor Angela Benedetta, clarissa



Arrivarono solo in tre
Forse non tutti sanno che un tempo, quando non esistevano i computer, tutto il sapere del mondo era concentrato nella mente di sette persone sparse nel mondo: i famosi Sette Savi, i sette sapienti che conoscevano i come, i quando, i perché, i dove di ogni cosa che accadeva. Erano talmente importanti che erano considerati dalla gente dei re, anche se non lo erano; per questo erano chiamati Re Magi.
Nell’anno O, studiando le loro pergamene segrete, tutti e sette i Magi giunsero ad una strabiliante conclusione: proprio in una notte di quell’anno sarebbe apparsa una straordinaria stella che li avrebbe guidati alla culla dei Re dei re. Da quel momento passarono ogni notte a scrutare il cielo e a fare preparativi, finché davvero una notte nel cielo apparve una stella luminosissima; i Sette Savi partirono dai sette angoli del mondo dove si vivevano e si misero a seguire la stella che indicava loro la strada. Tutto quello che dovevano fare era non perderla mai di vista.
Ognuno dei sette Magi, tenendo gli occhi fissi sulla stella, che poteva vedere giorno e notte, cavalcava per raggiungere il Monte delle Vittorie, dove era stabilito che i sette savi dovevano incontrarsi per formare una sola carovana.
Olaf, re Mago della Terra dei Fiordi, attraversò le catene dei monti di ghiaccio e arrivò presto in una valle verde, dove gli alberi erano carichi di frutti squisiti e il clima dolce e riposante; il mago vi si trovò così bene che decise di costruirsi un castello. Così, ben presto, si scordò della stella.
Igor, re Mago del Paese dei Fiumi, era un giovane forte e coraggioso, abile con la spada e molto generoso. Attraversando il regno del re Rosso, un sovrano crudele e malvagio, decise di riportare la pace e la giustizia per quel popolo maltrattato; così divenne il difensore dei poveri e degli oppressi, perse di vista la stella e non la cercò più.
Yen Hui era il re Mago del Celeste Impero, era uno scienziato e un filosofo, appassionato di scacchi. Un giorno arrivò in una splendida città dove uno studioso teneva una conferenza sulle origini delll’universo; Yen Hui non riuscì a resistere, lo sfidò ad un dibattito pubblico, si confrontarono su tutti i campi del sapere e per ultimo iniziarono una memorabile partita a scacchi che durò una settimana. Quando si ricordò della stella era troppo tardi: non riuscì più a trovarla.
Lionel era un re Mago poeta e musicista, che veniva dalle terre dell’Ovest e viaggiava solo con strumenti musicali. Una sera fu ospitato per la notte da un ricco signore di un pacifico villaggio. Durante il banchetto in suo onore, la figlia del signore danzò e cantò per gli invitati e Lionel se ne innamorò perdutamente; così finì per pensare solo a lei e nel suo cielo la stella miracolosa scomparve piano piano.
Solo Melchior, re dei Persiani, Balthasar, re degli Arabi e Gaspar, re degli Indi, abituati alla fatica e ai sacrifici, non diedero mai riposo ai loro occhi, per non rischiare di perdere di vista la stella che segnava il cammino, certi che essa li avrebbe guidati alla culla del Bambino, venuto sulla terra a portare pace e amore. Così ognuno di loro arrivò puntuale all’appuntamento al Monte delle Vittorie, si unì ai compagni e insieme ripresero la loro marcia verso Betlemme, guidati dalla stella cometa, più luminosa che mai.
Bruno Ferrero, Novena di Natale per i bambini, LDC


La pecora nera alla grotta di Betlemme
C’era una volta una pecora diversa da tutte le altre. Le pecore, si sa, sono bianche; lei invece era nera, nera come la pece.
Quando passava per i campi tutti la deridevano, perché in un gregge tutto bianco spiccava come una macchia di inchiostro su un lenzuolo bianco: «Guarda una pecora nera! Che animale originale; chi crede mai di essere? ».
Anche le compagne pecore le gridavano dietro: «Pecora sbagliata, non sai che le pecore devono essere tutte uguali, tutte avvolte di bianca lana?».
La pecora nera non ne poteva più, quelle parole erano come pietre e non riusciva a digerirle.
E così decise di uscire dal gregge e andarsene sui monti, da sola: almeno là avrebbe potuto brucare in pace e riposarsi all’ombra dei pini.
Ma nemmeno in montagna trovò pace. «Che vivere è questo? Sempre da sola!», si diceva dopo che il sole tramontava e la notte arrivava.
Una sera, con la faccia tutta piena di lacrime, vide lontano una grotta illuminata da una debole luce. «Dormirò là dentro » e si mise a correre. Correva come se qualcuno la attirasse.
«Chi sei?», le domandò una voce appena fu entrata.
«Sono una pecora che nessuno vuole: una pecora nera! Mi hanno buttata fuori dei gregge».
«La stessa cosa è capitata a noi! Anche per noi non c’era posto con gli altri nell’albergo. Abbiamo dovuto ripararci qui, io Giuseppe e mia moglie Maria. Proprio qui ci è nato un bel bambino. Eccolo!».
La pecora nera era piena di gioia. Prima di tutte le altre poteva vedere il piccolo Gesù.
«Avrà freddo; lasciate che mi metta vicino per riscaldarlo!».
Maria e Giuseppe risposero con un sorriso. La pecora si avvicinò stretta stretta al bambino e lo accarezzò con la sua lana.
Gesù si svegliò e le bisbigliò nell’orecchio: «Proprio per questo sono venuto: per le pecore smarrite!».
La pecora si mise a belare di felicità. Dal cielo gli angeli intonarono il «Gloria».



La leggenda di San Nicola
Nicola era un vescovo molto generoso ed è famoso per i miracoli che ha fatto in favore dei bambini. Una famosa leggenda racconta di quando diede da mangiare ad alcuni bambini poveri ed affamati di una città. San Nicola raccolse frutta, verdura, grano e li fece caricare su una grande barca dalle vele blu che partì alla volta della città.
San Nicola bussò alle porte delle case dove vivevano i bambini poveri lasciando loro un sacco di cibo. Da allora san Nicola torna tutti gli anni sulla terra per portare regali ai bambini.
San Nicola in Olanda
Ai bambini olandesi si racconta che San Nicola abita in Spagna col fedele Piero il Nero e che essi arrivano il 6 dicembre a bordo di un grande veliero. Durante tutto l’anno San Nicola annota le buone e le cattive azioni dei bambini, mentre il suo valletto prepara i regali. San Nicola e Piero il nero vengono ricevuti dal sindaco e dalla regina. Il valletto ha la testa coperta di fuliggine perché è lui che infila i regali nei camini. San Nicola sbarca a Amsterdam, la capitale dell’Olanda. Il 6 dicembre è festa per tutti i piccoli olandesi poiché essi ricevono i regali. San Nicola attraversa la città sul suo cavallo bianco fra le grida di gioia dei bambini; poi va a visitare i bambini ammalati. Il 6 dicembre i bambini cercano i regali in casa e leggono i biglietti che li accompagnano.
San Nicola in Austria e in Slovacchia
In Austria San Nicola sfila con i Krampus. Questi sono strani personaggi che minacciano di portare via i bambini disobbedienti. In Slovacchia, San Nicola, sotto la sorveglianza di personaggi mascherati, scaccia la morte dalle abitazioni. la morte è rappresentata da una specie di fantasma che tiene in mano una falce.



La leggenda del vischio
C’era una volta, in un paese tra i monti, un vecchio mercante. L’uomo viveva solo, non si era mai sposato e non aveva piu’ nessun amico. Per tutta la vita era stato avido e avaro, aveva sempre anteposto il guadagno all’amicizia e ai rapporti umani. L’andamento dei suoi affari era l’unica cosa che gli importava. Di notte dormiva pochissimo, spesso si alzava e andava a contare il denaro che teneva in casa, nascosto in una cassapanca.
Per avere sempre piu’ soldi, a volte si comportava in modo disonesto e approfittava della ingenuita’ di alcune persone. Ma tanto a lui non importava, perche’ non andava mai oltre le apparenze.
Non voleva conoscere quelli con i quali faceva affari. Non gli interessavano le loro storie e i loro problemi. E per questo motivo nessuno gli voleva bene.
Una notte di dicembre, ormai vicino a Natale, il vecchio mercante non riusciva a dormire e dopo aver fatto i conti dei guadagni, decise di uscire a fare una passeggiata.
Comincio’ a sentire delle voci e delle risate, urla gioiose di bambini e canti.
Penso’ che di notte era strano sentire tanto chiasso in paese. Si incuriosi’ perche’ non aveva ancora incontrato nessuno, nonostante voci e rumori sembrassero molto vicini.
A un certo punto comincio’ a sentire qualcuno che pronunciava il suo nome, chiedeva aiuto e lo chiamava fratello. L’uomo non aveva fratelli o sorelle e si stupi’.
Per tutta la notte, ascolto’ le voci che raccontavano storie tristi e allegre, vicende familiari e d’amore. Venne a sapere che alcuni vicini erano molto poveri e che sfamavano a fatica i figli; che altre persone soffrivano la solitudine oppure che non avevano mai dimenticato un amore di gioventu’.
Pentito per non aver mai capito che cosa si nascondeva dietro alle persone che vedeva tutti i giorni, l’uomo comincio’ a piangere.
Pianse cosi’ tanto che le sue lacrime si sparsero sul cespuglio al quale si era appoggiato.
E le lacrime non sparirono al mattino, ma continuarono a splendere come perle.
Era nato il vischio.
Fiaba del Trentino



Fiaba di Santa Lucia
Quando S. Lucia salì in cielo, tutti si meravigliarono nel veder arrivare una persona così giovane. Ben presto la Santa con i suoi modi dolci ed i suoi occhi pieni di luce conquistò tutti e, persino lo scontroso S. Pietro si prese cura di lei come fanno i nonni con i nipoti.Così trascorrevano i giorni allietati di serenità e pace e Lucia si godeva questa sublime situazione, riflettendo su quanto fossero lontane da lei le sofferenze e la cattiveria che regnavano sulla Terra. S. Pietro, che nonostante la sua lunga barba bianca, aveva ancora una vista acutissima, si accorse che un sottile velo di tristezza si era posato sugli occhi celestiali di Lucia e, così, decise di chiamarla a sé per parlarle. S. Lucia gli disse che avrebbe tanto desiderato anche per un solo minuto poter rivedere il suo paese in Sicilia e i suoi poveri.
S. Pietro, fu talmente colpito da quella richiesta che passò giorni e notti fra le morbide nuvole del Paradiso a pensare come potesse esaudire il suo desiderio, finché prese coraggio e decise di parlarne col Padre Eterno. S’incamminò un po’ timoroso e quando fu da Lui espose la richiesta tenendo sempre china la testa in segno di profondo rispetto. S. Pietro restò immobile ad aspettare una risposta poi, inaspettatamente, udì uno strano e metallico tintinnio; socchiuse gli occhi e vide che il buon Dio teneva in mano una piccola chiave d’oro. “Tieni Pietro, questa é la chiave che apre una finestrella che dà sul mondo, prendila e portala a S. Lucia” disse il Signore. S. Pietro fu così meravigliato che afferrò la chiave e corse come un ragazzino a cercare la sua Santa bambina, felice di aver esaudito il suo desiderio. Immediatamente gli occhi della santa s’illuminarono e i due salirono su di una nuvoletta che li portò alla magica finestrella. Quando arrivarono, Lucia con la mano tremante, infilò la chiave nella fessura e, come d’incanto, le apparve laggiù il mondo.La giovane fu soddisfatta di quella visione e, per lungo tempo,non desiderò più aprire gli occhi sulle cose terrene. Una notte però, il suo sonno venne turbato da lontani lamenti e pianti. Lucia, preoccupata decise di prendere la chiave per vedere cosa stesse accadendo. Fu in quel momento che la santa vide tutte le cose ingiuste, la vita dissoluta, il male, ma soprattutto vide bambini che soffrivano e piangevano. Rammaricata richiuse piano la finestrella e, una profonda tristezza, calò sui suoi dolcissimi occhi celesti.
Lucia sperava di vedere presto migliorare le cose sulla Terra; la sofferenza dei bambini l’angosciava tantissimo, non sopportando che proprio loro, così immacolati ed indifesi, potessero subire angherie fisiche o morali da parte degli adulti.
S. Pietro nel frattempo la osservava in silenzio e, notava man mano che passavano le giornate, il mutamento d’umore di Lucia.Nemmeno al Padre Eterno passò inosservata la cosa e decise di chiamare S. Pietro. “Caro Pietro,” disse il Signore “Io so quello che turba S. Lucia. Ella soffre per i patimenti dei bambini e le privazioni alle quali sono sottoposti.”disse ed aggiunse: ” Ho deciso, daremo l’incarico proprio a Lei di portare una volta all’anno un po’ di allegria sulla Terra e, tu Pietro, le dirai che il Signore l’autorizza a scendere il giorno del suo martirio cioè il 13 dicembre per portare doni a tutti i bambini della Terra. Ora vai, corri, voglio che torni la luce in quei santi occhi.” S. Pietro fu talmente felice, che, abbracciò il Signore e poi si affrettò a cercare Lucia per darle la bellissima notizia. Subito la santa rimase incredula, ma poi si convinse riempiendosi il cuore di letizia. Ormai mancavano pochi giorni al 13 dicembre, ma Lucia capì ben presto che non disponeva di nulla ed, in Paradiso, non esistevano né pasticcerie, né negozi di giocattoli. Questa volta S. Pietro fu veramente geniale; chiamò S. Lucia e la invitò a prendere la chiave d’oro dicendole di seguirlo.”Apri la finestrella e guarda bene”disse Pietro. “Vedi là nello spazio?

Eccolo, lì c’é un cavallino, una bambola, un trenino, là c’é una trombetta, una trottola, li vedi? Sai cosa sono tutti quei giochi? Sono i giochi superflui, inutili, abbandonati e dimenticati dai bambini viziati e mai contenti. I giochi sono come le persone, cercano compagnia e, se nessuno li vuole più, preferiscono andare nello spazio, sperando d’incontrare qualche bimbo disposto a giocare con loro.. su’ dai forza, prendine quanti ne vuoi e portali a chi ne ha veramente bisogno” concluse Pietro. “Oh, nonno Pietro, grazie, grazie di cuore”
disse S. Lucia e cominciò ad afferrare tutti quei giocattoli abbandonati. La santa lavorò fino alla sera del 12 dicembre e mise tutti i giocattoli in grandi sacchi che appoggiò sulle spalle. Ma cara Lucia, così non arriverai mai con tutto quel carico,pesa troppo” disse Pietro e col suo vocione esclamò: ” C’é qualcuno qui che sarebbe disposto ad aiutare S. Lucia?” “Iho…Iho…”Tu, mio dolce asinello? Se a Lucia va bene, andrà bene anche a me” disse Pietro guardando la santa. “Bravo asinello, tu sarai il mio fedele accompagnatore, vedrai, quando ci vedranno i bambini che gioia sarà per loro”disse Lucia accarezzando la generosa bestiola. Ecco come nacque il viaggio di S. Lucia e del suo asinello; da allora non hanno mai mancato all’appuntamento ogni 13 dicembre con i bambini buoni e bravi.






La leggenda dell’Albero di Natale

In un remoto villaggio di campagna, la Vigilia di Natale, un ragazzino si recò nel bosco alla ricerca di un ceppo si quercia da bruciare nel camino, come voleva la tradizione, nella notte Santa. Si attardò più del previsto e, sopraggiunta l’oscurità, non seppe ritrovare la strada per tornare a casa. Per giunta incominciò a cadere una fitta nevicata.
Il ragazzo si sentì assalire dall’angoscia e pensò a come, nei mesi precedenti, aveva atteso quel Natale, che forse non avrebbe potuto festeggiare.
Nel bosco, ormai spoglio di foglie, vide un albero ancora verdeggiante e si riparò dalla neve sotto di esso: era un abete. Sopraggiunta una grande stanchezza, il piccolo si addormentò raggomitolandosi ai piedi del tronco e l’albero, intenerito, abbassò i suoi rami fino a far loro toccare il suolo in modo da formare come una capanna che proteggesse dalla neve e dal freddo il bambino.
La mattina si svegliò, sentì in lontananza le voci degli abitanti del villaggio che si erano messi alla sua ricerca e, uscito dal suo ricovero, poté con grande gioia riabbracciare i suoi compaesani. Solo allora tutti si accorsero del meraviglioso spettacolo che si presentava davanti ai loro occhi: la neve caduta nella notte, posandosi sui rami frondosi, che la piana aveva piegato fino a terra. Aveva formato dei festoni, delle decorazioni e dei cristalli che, alla luce del sole che stava sorgendo, sembravano luci sfavillanti, di uno splendore incomparabile.
In ricordo di quel fatto, l’abete venne adottato a simbolo del Natale e da allora in tutte le case viene addobbato ed illuminato, quasi per riprodurre lo spettacolo che gli abitanti del piccolo villaggio videro in quel lontano giorno.
Da quello stesso giorno gli abeti nelle foreste hanno mantenuto, inoltre, la caratteristica di avere i rami pendenti verso terra.




NATALE A REGALPETRA

di Leonardo Sciascia
Le feste di Natale sono finite. Non per tutti sono state gioiose e ricche. Non tutti sono andati in montagna a sciare. A Regalpetra, che si trova in Sicilia, qualche anno fa le cose andavano come ce le descrive questo grande scrittore siciliano .E da allora, non vi sono stati molti mutamenti …

- Il vento porta via le orecchie - dice il bidello.
Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa.
I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni.
L’aula ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo.
Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale:
tutti hanno giuocato a carte, a scopa, sette e mezzo e ti-vitti (ti ho visto :un gioco che non consente la minima distrazione); sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo.
Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente.
In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca:"La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù".
Alcuni hanno scritto,senza consapevole amarezza, amarissime cose:
"Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa".
Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre Pagandogli il biglietto del cinema…
Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato.
"La mattina del Santo Natale - scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto".
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre "per fare la spesa". Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
"E così ho passato il Santo Natale".



NATALE

di Lucia Porfiri


Si avvicina il Natale,
nell'aria si respira un profumo di gioia e di amore.
Se ti guardi intorno non vedrai che serenità!

Ma...cosa succede?
Là in quel piccolo paese non c'è gioia!
C'è solo dolore, gente che soffre, gente che muore...

E là? Guarda là! C'è solo indifferenza,
in quel paese alle persone non importa nulla del Natale!
Troppa gente soffre, troppa gente non sa!

E' Natale, cerca anche tu di portare pace e amore...
...dove ci sono guerra e odio.

È Natale!
di Dino Ticli
(racconto pubblicato su un settimanale, 1999)


Roberto Landi avanzava con passo svelto lungo una viuzza acciottolata, piuttosto stretta e silenziosa. Aveva sollevato il bavero del cappotto e lo teneva stretto con la mano destra per ripararsi dal vento pungente e gelido che quella sera sembrava avesse scelto il suo stesso tragitto. Il cappello ben calcato fino agli occhi contribuiva a renderlo una figura anonima nella penombra. I lampioni, fissati ad un alto muro di pietre, emettevano una luce fioca e rossiccia ed erano così distanziati l’uno dall’altro che, quando ne aveva lasciato uno dietro alle spalle, poteva osservare la sua ombra accorciarsi sempre di più fino a vederla scomparire del tutto nelle zone di buio fitto.
- In che razza di posto mi ha mandato! - brontolò indispettito quando una raffica improvvisa e più forte delle altre gli fece volare via il cappello. Lo raccolse e lo calcò con più vigore piegando la testa in direzione del vento e trattenendolo con la mano sinistra.
- È inutile lamentarsi - si disse con amarezza. - Me la sono cercata io.
In effetti, quando il direttore aveva chiesto chi avrebbe voluto recarsi in quel paesino per scrivere l’ultimo articolo sulle tradizioni natalizie, tra lo stupore dei colleghi, si era offerto volontario. D’altra parte nessuno si era fatto avanti, comprensibilmente.
- Proprio tu, Landi? - aveva chiesto il direttore con un sorrisetto sulle labbra, ben conoscendo la sua avversione per quel genere di cose. Ed infatti, quando il suo capo, tempo prima, aveva proposto alla redazione l’idea di una serie di articoli da pubblicare nel periodo natalizio, era stato l’unico ad opporsi fermamente. Era convinto che non si potesse continuare a narcotizzare la gente con quel genere di cose. Il Natale era per lui solo una grande truffa ormai priva di significato tranne per i commercianti che si arricchivano approfittando dell’euforia incosciente che invadeva tutti ma non Roberto Landi, ovviamente.
- Proprio tu, Landi? - si era sentito ripetere con tono provocatorio, ma si era limitato a rispondere con un’alzata di spalle.
Nessuno avrebbe rinunciato volentieri ai festeggiamenti in famiglia, di certo non la vigilia di Natale. Ma lui? Il bello ed elegante Roberto Landi, ammirato dalle colleghe ed invidiato dai colleghi: cosa lo aspettava a casa?
- Casa - sbottò, chiudendosi ancor più nel bavero.
Anche lui si rendeva conto che una stanza d’albergo non poteva considerarsi una casa, anche se tante volte si era vantato della sua libertà con i colleghi. Entrare ed uscire senza dover rendere conto a nessuno, invitare amici ed amiche a piacimento, avere qualcuno che riordini senza dover nemmeno ringraziare. Bella vita davvero, ma quella era una sera speciale e non avrebbe trovato nessuno a tenergli compagnia e così meglio lavorare.
- Comunque sia, se il direttore si aspetta un articolo melenso come quelli scritti dai miei colleghi, avrà una bella sorpresa.
Sapeva già cosa avrebbe trovato nella chiesetta che lo aspettava in fondo a quella galleria del vento: uno dei mille insignificanti presepi tutti luci e stelline, magari uno di quelli con il giorno e la notte che si alternano cercando di ricreare la vita dove questa non c’è più, da duemila anni. O addirittura un presepio moderno dove al posto delle pecore ci sono le automobili, al posto delle case di argilla e mattoni, di legno e paglia, vi sono edifici in cemento e strade asfaltate.
- Niente stelle, però - ironizzò alzando gli occhi al cielo nuvoloso. - Lo smog e le luci di una città le rendono invisibili o così poco attraenti che è meglio guardare altrove.
Ma le sue considerazioni si interruppero bruscamente perché inciampò in un ciottolo sporgente che gli fece perdere l’equilibrio. Prima di alzarsi, si permise di imprecare a voce alta, tanto in quel deserto nessuno lo avrebbe udito. Si spolverò il cappotto e cercò invano il cappello che sembrava essersi dissolto.
- Al diavolo il cappello - concluse irritato rimettendosi in cammino.
Il vento ne approfittò per arruffargli i capelli ed infilarsi gelido tra il collo ed il bavero.
Fece gli ultimi metri corsa e spinse con forza una pesante porta di legno. Tirò un sospiro di sollievo, ma fu subito colpito dal forte odore di incenso, di cera e di umidità.
Sul fondo, appena illuminato, si intravedeva un altare sormontato da una pala di legno dipinta. Un Cristo benedicente, sebbene ormai inscurito dal fumo di mille candele, lo accolse con un sorriso immobile che elargiva da chissà quanto tempo.
Erano molti anni che non metteva piede in una chiesa e un inaspettato senso di disagio contribuì a renderlo ancora più inquieto. Si mosse allora lentamente sul pavimento di pietre irregolari per raggiungere una delle prime panche. Prima di sedersi, notò come lo scrupoloso lavoro di generazioni di infaticabili tarli e l’intenso uso, sebbene più deboli, avessero reso austeri quei poveri sedili. Per questo non lo ritenne un difetto anzi gli parve che tutto facesse parte di una scenografia che nemmeno il più abile degli architetti sarebbe stato in grado di creare.
Una luce, solo un po’ meno fioca di quella delle candele che ardevano ovunque, si accese presso un altare laterale. Ebbe un moto di fastidio, come se un rumore inopportuno e stonato avesse rotto l’incantesimo di un concerto.
- È il presepio - pensò. - Sarà meglio che mi sbrighi: non voglio rimanere oltre in questo posto. E devo anche cercare il parroco per l’intervista.
Ma non lo fece. Si diresse invece verso quella luce, come se si fosse accesa per lui. Sapeva che sarebbe rimasto deluso nel vedere l’ennesima ricostruzione, piena di buona e sciocca fede, di un fatto storico in cui troppe persone riponevano le loro speranze.
Era ormai all’altezza dell’altare laterale, quando le luci, dopo aver traballato per qualche istante si spensero del tutto.
- Scarse capacità tecnologiche - ironizzò avanzando ancora.
Un odore di muffa e di legno lo avvolse procurandogli dapprima un senso di fastidio; tuttavia gli risvegliò lontani ricordi e si trasformò rapidamente in qualcosa di dolce e piacevole: la casa di campagna dei nonni, la loro cantina piena di mobili polverosi e umidi tra i quali aveva passato ore giocando a nascondino con i suoi cugini.
- Non è un presepio moderno - commentò compiaciuto. - Questi oggetti devono essere vecchi almeno come le panche.
Ma la luce della chiesa era troppo fioca e poté distinguere solo le sagome nere dei personaggi. Erano piuttosto grandi e disposti nelle pose più strane.
- Forza, un po’ di luce - chiese in un bisbiglio, ma la luce non venne.
- Spero che vorrai scusarmi - disse poco dopo, ma senza nessuna ironia, al Cristo benedicente quando prese una delle candele che ardevano presso l’altare maggiore.
Tornò quindi rapidamente al presepio, proteggendo la piccola fiamma con una mano.
- Ed eccomi ancora qua - esclamò infine e liberò la fiamma.
Il personaggio più vicino fu illuminato di rosso e proiettò un’ombra che danzava al ritmo della fiammella. La statuetta era piuttosto grossa ed intagliata nel legno, come aveva immaginato. Era stata dipinta con cura e rappresentava un uomo di una certa età, con la faccia rugosa ed una folta barba bianca; reggeva una lanterna per illuminare la strada e gridava qualcosa di incomprensibile nonostante tenesse una mano attorno alla bocca per farsi sentire meglio.
- Non c’è nessuno ad ascoltarti e la tua luce non splende. Non affaticarti oltre e lascia che siano gli altri a preoccuparsi delle cose del mondo.
Più in là trovò una donna con un grande cesto sulla testa, all’interno del quale vi erano dei pani e dei pesci. Aveva uno sguardo serio e pensieroso che non lasciava trapelare nulla riguardo al luogo verso cui si stava dirigendo in tutta fretta.
- Cara, signora, probabilmente non sai nemmeno tu dove andare. Cammina, cammina e dopo tanti anni sei ancora qua, con i tuoi pani e i tuoi pesci alla ricerca di una meta. Forse il vecchio è tuo padre che non vedendoti tornare è uscito alla tua ricerca nel buio della notte.
Ebbe per un attimo la tentazione di spostare la statuetta della donna perché potesse finalmente ricongiungersi con il padre. Ma si vergognò di quel pensiero infantile.
Con la candela illuminò allora la strada seguita dalla donna che si inerpicava verso una collina, ma dovette immaginarla più che vederla. Una sorgente d’acqua, che la mano esperta di un pittore aveva saputo rendere viva e fresca, scorreva da una pietra ai piedi della collina e si gettava in una grande vasca. Un’altra donna era china presso la fonte e attingeva con un secchio. Una serie di pieghe sulla fronte e la smorfia sul volto non lasciavano dubbi sulla fatica a cui si stava sottoponendo.
- Non puoi fare altrimenti, lo so. Se avessi potuto scegliere, avresti sicuramente voluto nascere in una famiglia agiata dove altri avrebbero preso l’acqua per te. Ma così ha voluto la sorte ed ora ti tocca sollevare quel secchio che non riuscirai mai a riempire del tutto.
Più staccati, due uomini discutevano animatamente. L’argomento della disputa erano sicuramente due galline che uno dei due teneva per le zampe, mentre l’altro, forse un compratore, le indicava con la mano.
- Mi chiedi troppo per due galline. Sono magre e vecchie: ti darò la metà di quello che pretendi. D’altra parte nessuno te le comprerà e se non le dai a me le dovrai buttare. Il loro aspetto non inganna: devono essere morte da un secolo.
- Le ha uccise un cane, proprio stamattina. Erano due splendidi animali che producevano un mucchio di uova. Le ho sempre nutrite e accudite con cura e adesso tu vuoi che le regali.
- Calma, signori. Mettetevi finalmente d’accordo: ma sapete da quanto siete qui a contrattare? Sono sicuro che avete cose più importanti da fare, e a casa qualcuno vi attende...
- Sono diventato matto - disse a voce alta, interrompendo il flusso dei suoi pensieri, quando una goccia di cera bollente gli cadde dolorosamente sul dorso della mano.
Si massaggiò con vigore e fece per spegnere la candela ridotta ormai a un mozzicone, ma la fiammella, in una delle sue ultime danze, illuminò per un istante un angolo che altrimenti difficilmente avrebbe potuto vedere. E in quell’angolo un’immagine comparve per sparire nuovamente nel buio del presepio.
- Chi sei? - chiese ad un bambino.
Era piccolo, molto più piccolo rispetto alle altre statuine, quasi sproporzionato, come se l’autore avesse voluto accentuare il senso di fragilità e di tenerezza che suscitava. Se ne stava rannicchiato dietro a un masso risultando quasi invisibile. Alte erbe lo nascondevano ancor di più. Lo sguardo era perso nel vuoto ed un lungo bastone da pastore giaceva ai suoi piedi. Anche i suoi abiti rendevano chiaro il suo mestiere. Ma non vi erano né pecore né capre vicino a lui. Roberto diresse la luce tutt’intorno, ma il gregge più vicino si trovava in un’altra zona del grande presepio ed era accudito da tre pastori che sembrava sapessero il fatto loro.
- Dove sono le tue bestie?
- Le ho perse.
- Come hai fatto a perderle? - chiese ancora Roberto preoccupato, ben sapendo quanto fosse grave per un pastore perdere i suoi animali.
- Un canto - rispose il pastorello. - Ho sentito un canto dolce e inaspettato. Anzi era un coro di voci così belle che mi sono fermato ad ascoltare. Sarei rimasto lì tutta la notte se non mi fossi accorto che le mie pecore erano scappate. Le ho cercate dappertutto, te lo giuro, ma inutilmente. Ed allora mi sono nascosto dietro questa pietra.
- Perché non chiami qualcuno dei tuoi ad aiutarti?
- Piuttosto che tornare a casa rimango qui per sempre.
- Se vuoi, posso darti io una mano.
- Faresti questo per me? Perché?
- Ho tutto il tempo che voglio e nessuno che mi aspetti...
- Non hai figli?
- No.
- Nemmeno una moglie?
“Ne ho tante”, avrebbe voluto replicare, ma tante significava nessuna e così gli rispose: - Non ne ho.
- Allora sei proprio solo...
Che impertinenza. Non era solo, Roberto Landi: aveva tanti amici e conosceva un sacco di persone. Il suo cellulare squillava in continuazione. Quando lo desiderava, trovava sempre qualcuno che gli tenesse compagnia, e se proprio gli andava male, c’era pur sempre un buon libro o un film.
- In questo momento ho te - gli rispose con un filo di voce. Poi mosse la candela verso la parte destra del presepio. Si era accorto infatti che, nonostante la loro immobilità, tutte le statuine erano rivolte verso quella direzione, attratte da un richiamo al quale non si poteva non rispondere.
- Lì c’è sicuramente la capanna.
In effetti, i personaggi divennero sempre più numerosi: trovò un falegname, un arrotino, un venditore di olive, una lavandaia con un cesto sulla testa, un uomo in groppa a un asino, una signora anziana tutta curva... - Eccola! - esclamò quando la candela gli mostrò una stalla con un bue e un asino all’interno.
In un angolo, vicino ad una mangiatoia vuota, le statuine di Maria e Giuseppe erano già in adorazione, come ormai facevano da chissà quanti anni.
- Cosa cerchi?
Aveva illuminato un personaggio vestito di azzurro che dall’alto della capanna osservava la gente arrivare. Le ali spiegate e i lunghi capelli biondi dichiaravano la sua natura.
- Un gregge disperso.
- Sei un pastore?
- No, ma ne conosco uno.
- Guarda di fianco alla stalla.
Quattro pecore gonfie di lana se ne stavano beatamente sdraiate ai bordi della capanna. Le illuminò, ma il loro sguardo sembrava dire: “Guai se osi toccarci! Qui siamo a casa nostra”.
Tornò dal bambino, Roberto Landi, e senza pensarci troppo lo sollevò dal suo nascondiglio e lo portò con delicatezza fino alla capanna. Lo sistemò tra le sue pecore e gli parve, con soddisfazione, che l’espressione triste fosse scomparsa dal suo volto. Il pastorello aveva ritrovato il suo gregge e Roberto Landi aveva riscoperto qualcosa che pensava di aver perso per sempre.
- Ha ragione lei, signore. Il posto di quella statuina è proprio quello, lì tra le sue pecore. Qualcuno sbadatamente deve averlo dimenticato altrove.
Quella voce inattesa lo fece girare di scatto, sorpreso.
- Devo averla spaventata. Mi scusi, ma pensavo che mi avesse sentito arrivare. Comunque, io sono il parroco.
Il giornalista si guardò ancora attorno, smarrito; la chiesa infatti non era più vuota, ma numerose persone erano già sedute sulle panche.
- Sono qui in attesa della messa di mezzanotte - gli spiegò il sacerdote avendo colto lo stupore nel suo sguardo.
Intanto le luci del presepio si erano accese e avevano restituito alle statuine la staticità e l’impassibilità per loro naturali.
- Lei è venuto per quell’articolo sul nostro vecchio presepio, vero? - chiese ancora imbarazzato il parroco non avendo ottenuto alcuna risposta.
Roberto Landi si sentì pervadere da un senso di sollievo. Spense la candela, si passò, con un gesto a lui abituale, una mano nei folti capelli e finalmente rispose sorridendo: - Non più, credo che stasera sia Natale anche per me.




LE STELLE D'ORO
di J. e W. Grimm


Era rimasta sola al mondo. L'avevano messa sopra una strada dicendole: - Raccomandati al cielo, povera bimba!
E lei, la piccola orfana, s'era raccomandata al cielo! Aveva giunte le manine, volto gli occhi su, su in alto, e piangendo aveva esclamato: - Stelle d'oro, aiutatemi voi!
E girava il mondo così, stendendo la manina alla pietà di quelli che erano meno infelici di lei. L'aiutavano tutti, è vero, ma era una povera vita, la sua: una vita randagia, senza affetti e senza conforti.
Un giorno incontrò un povero vecchio cadente; l'orfanella mangiava avidamente un pezzo di pane che una brava donna le aveva appena dato.
- Ho fame - sospirò il vecchio fissando con desiderio infinito il pezzo di pane nelle mani della bimba; - ho tanta fame!
- Eccovi, nonno, il mio pane, mangiate.
- Ma, e tu?
- Ne cercherò dell'altro.
Il vecchio allora la benedisse: - Oh, se le stelle piovessero su te che hai un cuore così generoso!
Un altro giorno la poverina se ne andava dalla città ala campagna vicina. trovò per via una fanciulla che batteva i denti dal freddo; non aveva da ricoprirsi che la pura camicia.
- Hai freddo? - le domandò l'orfanella.
- Sì, - rispose l'altra - ma non ho neppure un vestito.
- Eccoti il mio: io non lo soffro il freddo, e se anche lo sento, mi rende un po' meno pigra.
- Tu sei una stella caduta da lassù; oh se potessi, vorrei... vorrei che tutte le altre stelle ti cadessero in grembo come pioggia d'oro.
E si divisero. L'orfanella abbandonata continuò la strada che la conduceva in campagna, presso una capanna dove pensava di riposare la notte, e l'altra corse via felice dell'abitino che la riparava così bene.
La notte cadeva adagio adagio e le stelle del firmamento si accendevano una dopo l'altra come punti d'oro luminosi. L'orfanella le guardava e sorrideva al ricordo dell'augurio del vecchio e di quello uguale della bimba cui aveva regalato generosamente il suo vestito. Aveva freddo anche lei, ora; ma si consolava perché la cascina a cui era diretta non era lontana; già ne aveva riconosciuti i contorni.
- Ah sì! - pensava: - se le stelle piovessero oro su di me ne raccoglierei tanto tanto e farei poi tante case grandi grandi per ospitare i bambini abbandonati. Se le stelle di lassù piovessero oro, vorrei consolare tutti quelli che soffrono; sfamerei gli affamati, vestirei i nudi... Mi vestirei - disse guardandosi con un sorriso; - io mi vestirei perché, davvero, ho freddo.
Si sentì nell'aria un canto di voci angeliche, poi il tintinnio armonioso di oro smosso. La bimba guardò in alto: subito cadde in ginocchio e tese la camicina. Le stelle si staccavano dal cielo, e , cambiate in monete d'oro, cadevano a migliaia attorno a quell'angioletto che, sorridendo, le raccoglieva felice:
- Sì, sì! Farò fare, sì, farò fare uno, no... tanti bei palazzi grandi per gli abbandonati e sarò il conforto di tutti quelli che soffrono!
Dal cielo, il soave canto di voci di paradiso ripeteva: - Benedetta! Benedetta!



GIUSEPPE E IL PASTORE





Quella notte d'inverno, fredda e rigida, Giuseppe cercava disperatamente qualcosa che potesse riscaldare sua moglie e il figlio appena nato. Era andato di casa in casa, aveva bussato a tutte le porte, ma nessuno gli aveva dato un po' di carbone o una fascina di legna.
Camminò fino ad essere esausto. Quando oramai credeva inutile ogni ricerca scorse in un campo un bagliore di fuoco. Corse verso di esso. Un gregge di pecore si riscaldava intorno alla fiamma mentre un vecchio pastore lo sorvegliava. Quando il pastore, che era un vecchio scorbutico, vide avvicinarsi il forestiero afferrò il lungo bastone ferrato e glielo scagliò contro. Giuseppe non fece una mossa per scansarlo, ma prima che lo raggiungesse il bastone deviò la traiettoria e cadde a terra innocuo.
Giuseppe si avvicinò al pastore e disse gentilmente: «Ho bisogno di aiuto: per favore posso prendere alcuni carboni ardenti? Mia moglie ha appena messo al mondo un bambino e devo accendere un fuoco per riscaldarli».
Il pastore avrebbe preferito rifiutare, ma vedendo che Giuseppe non aveva niente per trasportare le braci volle prendersi gioco di lui: "Prendine quanti ne vuoi," disse.
Giuseppe, senza scomporsi, raccolse le braci a mani nude e le mise nel suo mantello come se fossero nocciole o mele.
Il pastore disse meravigliato: «Che notte è mai questa?».
Pieno di curiosità seguì Giuseppe e giunse così alla stalla dove c'erano Maria e il bambino adagiato sulla fredda paglia.
Il suo cuore si intenerì. Per la prima volta provò il grande desiderio di offrire qualche cosa.
Tirò fuori dallo zaino una morbida pelle di pecora e la offrì a Giuseppe perché vi avvolgesse il bambino. In quel momento i suoi occhi si aprirono e vide gli angeli e la gloria di Dio che circondava la mangiatoia dove il bambino sorrideva contento.
Il pastore si inginocchiò tutto felice perché aveva capito che in quella notte il suo cuore si era aperto all'amore.

Dio ci vuote incontrare

Il racconto è un invito a lasciare cadere la cattiveria e l'indifferenza che ci riempie il cuore. Guardiamo alla grotta di Betlemme come al luogo dell'incontro di Dio con l'uomo.

« Dio ha tanto amato gli uomini da mandare il suo figlio Gesù, perché chi crede in Lui ha la vita eterna».

PREGHIERA

Tu lo sai, Signore:
dietro la maschera
della nostra indifferenza
c'è un cuore che ti aspetta.
Dietro la maschera
del nostro orgoglio
c'è il volto
di uno che ha paura
di proclamare la sua fede.
Tu, Signore,
sei colui che smaschera.
Tu togli i travestimenti
e fai apparire
la verità nascosta
nel cuore degli uomini.




IL PASTORE
di Piero Bargellini


Che freddo quella notte! Le stelle bucavano il cielo come punte di diamante. Il gelo induriva la terra. Sulla collina di Betlem tutte le luci erano spente, ma nella vallata ardevano, rossi, i nostri fuochi.
Le pecore, ammassate dentro gli stazzi, si addossavano le une sulle altre, col muso nascosto nei velli.
Noi di guardia invidiavamo le bestie che potevano difendersi così bene dal freddo. Si stava attorno ai fuochi che ci cocevano da una parte, mentre dall'altra si gelava.
Sulla mezzanotte il fuoco cominciò a crepitare come se qualcuno vi avesse gettato un fascio di pruni secchi.
Nello stazzo, le pecore si misero a tramenare. Alzavano i musi in aria, e belavano.
- Sentono il lupo, - pensai.
Cercai a tasto il bastone e mi alzai. I cani giravano su se stessi e uggiolavano.
- Hanno paura anche loro, - pensai.
Intanto anche i compagni si erano levati da terra. Facemmo gruppo scrutando la campagna.
Non era più freddo. Il cuore, invece di battere per la paura, sussultava quasi di gioia. Era d'inverno, e ci sentivamo allegri come se fosse stata primavera. Era di notte, e si vedeva luce come di giorno.
Sembrava che l'aria fosse diventata polvere luminosa. E in quella polvere, a un tratto, prese figura una creatura così bella che ne provammo sgomento.
- Non temete, - disse l'apparizione. - Io vi annunzio una grande gioia destinata a tutto il popolo. Oggi vi è nato un Salvatore, nella città di David. E questo sia per voi il segnale: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia.
Non aveva finito di parlare, che da ogni parte del cielo apparvero Angeli luminosi, e cantavano: - Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà.
Poi tornò la notte, e noi restammo come ciechi nella valle piena di oscurità. I fuochi si erano spenti. Le pecore tacevano. I cani s'erano acciambellati per terra.
- Abbiamo sognato! - pensammo. Ma eravamo in troppi a fare lo stesso sogno.
Lì vicino, sulla costa della collina, erano scavate alcune grotte, che servivano da stalla. Avevano la mangiatoia formata di terra dura. Se il Salvatore si trovava in una mangiatoia, voleva dire che era nato in una di quelle povere grotte.
Infatti trovammo, come ci aveva detto l'Angelo, un Bambino fasciato, in mezzo a due animali, un bove e un asino. L'asino vi era giunto coi genitori del Bambino.
Sul basto sedeva il padre, pensieroso. Presso la mangiatoia, si trovava inginocchiata la madre, in adorazione del suo nato.
Guardai quel Bambino e il mio cuore s'intenerì. Sono un povero pastore, ma ogni volta che vedo un agnellino mi commuovo. E quel Bambino mi parve il più tenero, il più innocente degli agnelli.
Non so dire altro. Posso solo aggiungere che non ho più provato in vita mia una dolcezza simile a quella provata dinanzi a quel Bambino.
Anche ora che ci ripenso, mi torna la tenerezza per quell'Agnello innocente e gentile.
Sono un povero pastore. Perdonatemi se lo chiamo così. È per me il nome più dolce e più caro.


UNO DEI RE MAGI
di Piero Bargellini


No, non crediate che io sia un mago da fiaba. Non ho bacchetta fatata né faccio incantesimi. Nel nostro paese, che è la Persia, mago vuol dire sapiente, cioè studioso. Anche noi avevamo molto studiato, specialmente sul libro chiamato Avesta.
Le nostre spalle si erano incurvate su quel libro. Le nostre barbe erano diventate bianche nello studio.
Il libro annunziava la venuta di un "saggio signore o, di un "vittorioso Liberatore" degli uomini.
Prima di noi, generazioni e generazioni di sapienti avevano atteso questo miracoloso personaggio, ma sempre invano.
Ormai eravamo vecchi, e temevamo di dover chiudere gli occhi senza aver visto il Liberatore. Guardavamo il cielo, in attesa di un segno annunziante la sua venuta.
Ed ecco una stella di straordinario splendore farci segno di seguirla.
Partimmo felici, montati sulle migliori cavalcature, vestiti riccamente con le corone in testa e i doni in mano.
Non sarebbe stato conveniente presentarsi a quel gran personaggio senza regali. Uno di noi prese una coppa d'oro simbolo di potenza regale, un altro prese un'anfora piena d'incenso simbolo d'onore sacerdotale, l'altro ancora prese un calice di mirra simbolo di redenzione.
La stella ci faceva da guida. Nessun corteo aveva mai potuto vantare un simile battistrada. Valicammo monti, attraversammo pianure, guadammo fiumi e incontrammo città, senza che la stella accennasse a fermarsi.
Giunti a Gerusalemme, il re Erode fu avvertito del nostro arrivo. Seppe che cercavamo il Re dei Giudei e chiese ai suoi sapienti:
- Dove dicono i libri che deve nascere il Redentore?
Anche gli ebrei avevano un libro chiamato Bibbia, dove era annunziata la venuta del Salvatore. Perciò i sapienti risposero al re Erode: - Betlem sarà la sua culla.
- Andate a Betlem, - ci disse Erode - e al ritorno mi narrerete di lui.
Riprendemmo a viaggiare, e la stella viaggiava con noi, finché non si fermò sopra una povera stalla. Trovammo il Bambino fasciato e deposto nella mangiatoia, fra due animali. Quale abbandono e quanta miseria! Il Re del mondo giaceva su paglia trita, senza corte d'attorno e senza onori.
A quella vista, la nostra sapienza si confuse. Avevamo sperato di trovare un potente Re in una reggia sfarzosa, in mezzo a ricchezze e a splendori.

Vedendo tanta umiltà ci sentimmo umiliati. Mettemmo fuori i nostri doni: oro, incenso e mirra. Il Bambino ci guardò come per accettarli, ma noi sentimmo che non bastava offrir quei soli doni. Egli non s'appagava né d'oro né d'incenso né di mirra. Voleva insieme il nostro cuore, e lo voleva ripieno di quella ricchezza che non s'estingue mai, e che si chiama Amore.
A questo Amore, che si traduce in Carità, la nostra scienza di vecchi sapienti non aveva mai pensato.
Ce lo insegnò un bambino, nato da poco, in una stalla, con un sorriso che ringiovanì il nostro vecchissimo cuore.




IL NATALE

di Alessandro Manzoni


Qual masso che dal vertice
di lunga erta montana,
abbandonato all'impeto
di rumorosa frana,
per lo scheggiato calle
precipitando a valle,
barre sul fondo e sta;

là dove cadde, immobile
giace in sua lenta mole;
né, per mutar di secoli,
fia che riveda il sole
della sua cima antica,
se una virtude amica
in alto nol trarrà:

tal si giaceva il misero
figliol del fallo primo,
dal dì che un'ineffabile
ira promessa all'imo
d'ogni malor gravollo,
donde il superbo collo
più non potea levar.

Qual mai tra i nati all'odio,
quale era mai persona
che al Santo inaccessibile
potesse dir: perdona?
far novo patto eterno?
al vincitore inferno
la preda sua strappar?

Ecco ci è nato un Pargolo,
ci fu largito un Figlio:
le avverse forze tremano
al mover del suo ciglio:
all' uom la mano Ei porge,
che sì ravviva, e sorge
oltre l'antico onor.

Dalle magioni eteree
sgorga una fonte, e scende,
e nel borron de' triboli
vivida si distende:
stillano mele i tronchi
dove copriano i bronchi,
ivi germoglia il fior.

O Figlio, o Tu cui genera
l'Eterno, eterno seco;
qual ti può dir de' secoli:
Tu cominciasti meco?
Tu sei: del vasto empiro
non ti comprende il giro:
la tua parola il fe'.

E Tu degnasti assumere
questa creata argilla?
qual merto suo, qual grazia
a tanto onor sortilla
se in suo consiglio ascoso
vince il perdon, pietoso
immensamente Egli è.

Oggi Egli è nato: ad Efrata,
vaticinato ostello,
ascese un'alma Vergine,
la gloria d'lsraello,
grave di tal portato
da cui promise è nato,
donde era atteso usci.

La mira Madre in poveri
panni il Figliol compose,
e nell'umil presepio
soavemente il pose;
e l'adorò: beata!
innazi al Dio prostrata,
che il puro sen le aprì.

L’Angel del cielo, agli uomini
nunzio di tanta sorte,
non de' potenti volgesi
alle vegliate porte;
ma tra i pastor devoti,
al duro mondo ignoti,
subito in luce appar.

E intorno a lui per l'ampia
notte calati a stuolo,
mille celesti strinsero
il fiammeggiante volo;
e accesi in dolce zelo,
come si canta in cielo
A Dio gloria cantar.

L’allegro inno seguirono,
tornando al firmamento:
tra le varcare nuvole
allontanossi, e lento
il suon sacrato ascese,
fin che più nulla intese
la compagnia fedel.

Senza indugiar, cercarono
l'albergo poveretto
que' fortunati, e videro,
siccome a lor fu detto
videro in panni avvolto,
in un presepe accolto,
vagire il Re del Ciel.

Dormi, o Fanciul; non piangere;
dormi, o Fanciul celeste:
sovra il tuo capo stridere
non osin le tempeste,
use sull'empia terra,
come cavalli in guerra,
correr davanti a Te.

Dormi, o Celeste: i popoli
chi nato sia non sanno;
ma il dì verrà che nobile
retaggio tuo saranno;
che in quell'umil riposo,
che nella polve ascoso,
conosceranno il Re.



LE CIARAMELLE

di Giovanni Pascoli


Udii tra il sonno le ciaramelle,
ho udito un suono di ninne nanne.
Ci sono in cielo tutte le stelle,
ci sono i lumi nelle capanne.

Sono venute dai monti oscuri
le ciaramelle senza dir niente;
hanno destata ne' suoi tuguri
tutta la buona povera gente.

Ognuno è sorto dal suo giaciglio;
accende il lume sotto la trave;
sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,
di cauti passi, di voce grave.

Le pie lucerne brillano intorno,
là nella casa, qua su la siepe:
sembra la terra, prima di giorno,
un piccoletto grande presepe.

Nel cielo azzurro tutte le stelle
paion restare come in attesa;
ed ecco alzare le ciaramelle
il loro dolce suono di chiesa;

suono di chiesa, suono di chiostro,
suono di casa, suono di culla,
suono di mamma, suono del nostro
dolce e passato pianger di nulla.

O ciaramelle degli anni primi,
d'avanti il giorno, d'avanti il vero,
or che le stelle son là sublimi,
conscie del nostro breve mistero;

che non ancora si pensa al pane,
che non ancora s'accende il fuoco;
prima del grido delle campane
fateci dunque piangere un poco.

Non più di nulla, sì di qualcosa,
di tante cose! Ma il cuor lo vuole,
quel pianto grande che poi riposa,
quel gran dolore che poi non duole;

sopra le nuove pene sue vere
vuol quei singulti senza ragione:
sul suo martòro, sul suo piacere,
vuol quelle antiche lagrime buone!





I RE MAGI

di Gabriele D'Annunzio
La notte era senza luna; ma tutta la campagna risplendeva di una luce bianca e uguale come il plenilunio, poiché il Divino era nato; dalla campagna lontana i raggi si diffondevano....
Il Bambino Gesù rideva teneramente, tenendo le braccia aperte verso l'alto, come in atto di adorazione; e l'asino e il bue lo riscaldavano col loro fiato, che fumava nell'aria gelida.
La Madonna e San Giuseppe di tratto in tratto si scuotevano dalla contemplazione, e si chinavano per baciare il figliolo.
Vennero i pastori, dal piano e dal monte, portando i doni e vennero anche i Re Magi. Erano tre: il Re Vecchio, il Re Giovane e il Re Moro.
Come giunse la lieta novella della natività di Gesù si adunarono.
E uno disse:
- È nato un altro Re. Vogliamo andare a visitarlo ?
- Andiamo - risposero gli altri due.
- Ma con quali doni?
- Con oro, incenso e mirra.
Nel viaggio i Re Magi discutevano animatamente, perché non potevano ancora stabilire chi, per primo, dovesse offrire il dono.
Primo voleva essere chi portava l'oro. E diceva: - L'oro è più prezioso dell'incenso e della mirra; dunque io debbo essere il primo donatore.
Gli altri due alla fine cedettero. Quando entrarono nella capanna, il primo a farsi innanzi fu dunque il Re con l'oro.
Si inginocchiò ai piedi del bambino; e accanto a lui si inginocchiarono i due con l'incensi e la mirra.
Gesù mise la sua piccoletta mano sul capo del Re che gli offerse l'oro, quasi volesse abbassarne la superbia. Rifiutò l'oro; soltanto prese l'incenso e la mirra, dicendo: - L'oro non è per me!



NATALE

di Giuseppe Ungaretti


Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare


Napoli, il 26 dicembre 1916

Nel paradiso degli animali l'anima del somarello chiese all'anima del bue:
- Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia...?
- Lasciami pensare... Ma sì - rispose il bue. - Nella mangiatoia, se ben ricordo, c'era un bambino appena nato.
- Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati?
- Eh no, figurati. Con la memoria da bue che mi ritrovo.
- Millenovecentosettanta, esattamente.
- Accidenti!
- E a proposito, lo sai chi era quel bambino?
- Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino.
L'asinello sussurrò qualche cosa in un orecchio al bue.
- Ma no! - fece costui - Sul serio? Vorrai scherzare spero.
- La verità. Lo giuro. Del resto io l'avevo capito subito...
- Io no - confessò il bue - Si vede che tu sei più intelligente. A me non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un fantolino straordinario.
- Bene, da allora gli uomini ogni hanno fanno grande festa per l'anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo della serenità, della dolcezza, del riposo dell'animo, della pace, delle gioie famigliari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un'idea. Già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un'occhiata?
- Dove?
- Giù sulla terra, no!
- Ci sei già stato?
- Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare dare anche tu. Dopotutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due.
- Per via di aver scaldato il bimbo col fiato?
- Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la Vigilia.
- E il lasciapassare per me?
- Ho un cugino all'ufficio passaporti.

Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi lievi, come mammiferi disincarnati. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume; vi puntarono sopra. Il lume era una grandissima città. Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro. Trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano attraverso senza danno, e alla loro volta le due bestie passavano attraverso i muri come se fossero fatti d'aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.
Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava e usciva, tutti carichi di pacchi e pacchetti, con un'espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti. Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.
- Senti, amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esserti sbagliato. Qui stanno facendo la guerra.
- Ma non vedi come sono tutti contenti?
- Contenti? A me sembrano dei pazzi.
- Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi.
Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatine e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l'asinello, gentilmente, dietro.
Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta ad un tavolo, una signora molto preoccupata.
Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto mezzo metro di carte e cartoncini colorati, alla sua destra una pila di cartoncini bianchi. Con l'evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà a smaltirlo? La sciagurata ansimava.
- La pagheranno, bene, immagino, - fece il bue - per un lavoro simile.
- Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società.
- E allora perché si sta massacrando così?
- Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri.
- Auguri? E a che cosa servono?
- Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania.
Si affacciarono, più in là, a un'altra finestra. Anche qui, gente che, trafelava, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore.
Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da parte all'altra.

L’arcivescovo è solito sostare nella cattedrale ricolma di Dio, durante la notte di Natale. Un prete, Don Valentino, è in affanno: corre alla ricerca di Dio, convinto di averlo fatto scappare, poiché non ha fatto entrare un poveretto nella cattedrale. La ricerca purtroppo non conduce a nessun risultato: Dio non si trova da nessuna parte, perché l’egoismo fa sparire Dio da tutto il mondo. Solo quando Don Valentino ritornerà nella cattedrale lo ritroverà, accolto dall’arcivescovo tutto splendente di Dio. Insomma, non era la cattedrale a mancare di Dio, ma lo stesso Don Valentino.una stanza all'altra portando spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi, altri scatole altri fiori altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione ansia fastidio confusione e una terribile fatica. Dappertutto lo stesso spettacolo. Andare e venire, comprare e impaccare spedire e ricevere imballare e sballare chiamare e rispondere e tutti correvano tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.
- Mi avevi detto - osservò il bue - che era la festa della serenità, della pace.
- Già - rispose l'asinello. - Una volta infatti era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi... Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali.
Il bue tese le orecchie.
Per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale. Un brusio che riempiva la città.
- Ma ci credono? - chiese il bue - Lo dicono sul serio? Vogliono davvero tanto bene al prossimo?
L'asinello tacque.
- E se ci ritirassimo un poco in disparte? - suggerì il bovino. - Ho ormai la testa che è un pallone... Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?
- No, no. È semplicemente Natale.
- Ce n'è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c'era una pace, una soddisfazione. Come era diverso.
- E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena.
- E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano.
- Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano.
- E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle hanno una vita lunga.
- Ho idea di no - disse l'asino - c'è poca aria di stelle, qui. Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c'era un soffitto di caligine e di smog.




UNA STELLA SULLA STRADA DI BETLEMME

di Boris Pasternak


Era inverno
e soffiava il vento della steppa.
Freddo aveva il neonato nella grotta
sul pendio del colle.
L'alito del bue lo riscaldava.

Animali domestici stavano nella grotta.
Sulla culla vagava un tiepido vapore.
Dalle rupi guardavano
assonnati i pastori
gli spazi della mezzanotte.

E li accanto, sconosciuta prima d'allora,
più modesta di un lucignolo
alla finestrella di un capanno,
tremava una stella
sulla strada di Betlemme.


LUCE, PACE, AMORE

di L. Housman


La pace guardò in basso
e vide la guerra,
"Là voglio andare" disse la pace.

L'amore guardò in basso
e vide l'odio,
"Là voglio andare" disse l'amore.

La luce guardò in basso
e vide il buio,
"Là voglio andare" disse la luce.

Così apparve la luce
e risplendette.

Così apparve la pace
e offrì riposo.

Così apparve l'amore
e portò vita.




IL VECCHIO NATALE

di Marino Moretti


Mentre la neve fa, sopra la siepe,
un bel merletto e la campana suona,
Natale bussa a tutti gli usci e dona
ad ogni bimbo un piccolo presepe.

Ed alle buone mamme reca i forti
virgulti che orneran furtivamente
d'ogni piccola cosa rilucente:
ninnoli, nastri, sfere, ceri attorti...

A tutti il vecchio dalla barba bianca
porta qualcosa, qualche bella cosa.
e cammina e cammina senza posa
e cammina e cammina e non si stanca.

E, dopo avere tanto camminato
nel giorno bianco e nella notte azzurra,
conta le dodici ore che sussurra
la mezzanotte e dice al mondo: È nato!



NATALE, UN GIORNO

di Hirokazu Ogura


Perché
dappertutto ci sono cosi tanti recinti?
In fondo tutto il mondo e un grande recinto.

Perché
la gente parla lingue diverse?
In fondo tutti diciamo le stesse cose.

Perché
il colore della pelle non e indifferente?
In fondo siamo tutti diversi.

Perché
gli adulti fanno la guerra?
Dio certamente non lo vuole.

Perché
avvelenano la terra?
Abbiamo solo quella.

A Natale - un giorno - gli uomini andranno d’accordo in tutto il mondo.
Allora ci sarà un enorme albero di Natale con milioni di candele.
Ognuno ne terrà una in mano, e nessuno riuscirà a vedere l’enorme albero fino alla punta.

Allora tutti si diranno "Buon Natale!" a Natale, un giorno.




LAUDA DEL NATALE

Anonimo del XIV secolo


Cantiam di quello amor divino,
di Iesù Cristo piccolino.

Or quellera amor rosato
veder Cristo, amor beato,
picciolino fantin nato,
aulente fior di gersonzino

Sì fu alto amore e caro,
che i tre magi l'aroraro;
con reverenzia i presentaro
encenso e mirra e auro fino.

Grande umiltade pensare
che volse l'angel andare
alli pastori annunziare
che è nato Cristo mammulino.

La mangiatoia fu il suo letto,
l'asin e i bue ebbe ‘n sul petto,
ben ebbe ‘l mondo in dispetto
fin ched e' fu picciolino.


Accade Qualcosa da Oriente
di Gregorio Curto

"Perdindirindina, che smacco, che scorno!
Da due settimane mi guardo all'intorno;
alzando anelante al cielo lo sguardo
sul grande terrazzo ogni notte mi attardo;
mi piaccion le stelle, ma ora che faccio?
poiché non si vedon con questo tempaccio...!
E io che speravo veder la cometa
che annuncia l'avvento del Grande Profeta...!"
Si rode di rabbia il buon Baldassarre
che fausti presagi dagli astri sa trarre,
finché per un vento possente improvviso
ritorna sereno il suo nobile viso.

Si popola il cielo di tante fiammelle:
son mille, un milione di fulgide stelle;
tra queste più chiara, notata dal saggio,
l'attesa cometa lo invita ad un viaggio.
'La scienza degli astri di certo non mente:
qualcosa di grande accade in oriente!
Zibilio, t'affretta, prepara i cammelli
con viveri, doni e pesanti mantelli.
Avvisa il buon Gaspare, avvisa Melchiorre:
raduno alle tre proprio sotto la torre;
sul capo i turbanti, i libri alla mano
andiamo a cercare il Grande Sovrano."

Scavalcano monti, percorron deserti;
i vecchi sapienti si mostrano esperti
di astri e di storia, di viaggi e di scienza
e associano audacia cultura e prudenza.
Ma al settimo giorno son stanchi e abbattuti,
fatica e sconforto li rendono muti;
la stella cometa, sparita dal cielo,
ricopre le menti di un torbido velo.
Poi guardan lontano. Si fregan le ciglia:
si staglia, torreggia di lì a poche miglia,
la bella città capitale del regno
che Erode governa ma senza ritegno.

E Gaspare rompe il silenzio glaciale:
"Andare fin là mi parrebbe non male.
Chiediamo al Palazzo, astrologi miei,
dov'è che è nato il Re dei Giudei".
Arrivano a corte e raggiungono Erode
il quale però trama loro una frode;
lo rode l'invidia al pari di un tarlo:
non ama il Bambino, non vuole adorarlo!
Raduna gli scribi, consulta i suoi saggi:
"Sapete se qui, in città o nei paraggi,
è nato il Messia?"- "Di certo a Beltlemme";
rispondono i saggi marcando le emme.

Poi torna dai Magi: "Potete partire
(ma cerca il Messia per farlo morire!):
andate a Betlemme e fate buon viaggio
cercate il Bambino e rendetegli omaggio".
Avuto da Erode del cibo e del vino
il trio dei sapienti riprende il cammino:
- Guardate, non è che si viaggi per niente...
risplende la stella già apparsa in oriente!
- Seguiamola lieti, raggianti di gioia,
scordiamo i disagi e bando alla noia!
- Di certo ci porta al Profeta, al Messia
non può che essere questa la nobile via!

I Magi s'affrettan, li guida la stella
che vedono nitida e sempre più bella.
Arrivano infine ad una capanna:
tra loro e il Bambino c'è appena una spanna.
Si prostrano muti, sorpresi, stupiti,
raggianti nel volto e nel cuore contriti...
e aperti gli scrigni del loro tesoro
gli offrono incenso con mirra e con oro.
La storia dei Magi riguarda un Evento
che me - vedi bene - fa molto contento;
è un fatto passato che è ancora presente:
amici, Accade Qualcosa da Oriente!


Torna ai contenuti | Torna al menu